top of page

QUARTA IPOSTASI

Home: Benvenuto
Home: Blog2
  • Immagine del redattoreMattia

Il ruolo dell'alterità nella costituzione del Sé: spunti da Heidegger, Sartre, Dostoevskij


Che funzione svolge l’alterità nel cammino verso la costituzione della coscienza individuale e nel decidersi di questa per un’esistenza libera e autentica? In che termini si configura il rapporto tra individui? La formazione del Sé necessita della compartecipazione degli altri o progredisce in piena autonomia? A queste e ad altre domande proveremo a rispondere – senza la pretesa di esaurirne la portata – nel corso di questo scritto. Come indicato nel titolo, ci lasceremo guidare da alcuni luoghi del pensiero di Heidegger, Sartre e Dostoevskij, autori che con i quesiti in questione si sono confrontati in modo particolare, pur con mezzi, vocabolari e prospettive differenti. Di tali prospettive differenti si terrà naturalmente conto, cercando di rispettare ed evidenziare le diversità di pensiero e di contesto che caratterizzano i tre autori e di evitare le indebite forzature; si eviterà, del pari, tenendo conto delle intenzioni strettamente teoretiche che ci muovono, una ricostruzione storica troppo minuziosa e limitante, dando la precedenza ai nessi di tipo concettuale che possono far interagire i pensatori in analisi. Nel soffermarci su uno specifico autore ci conformeremo il più possibile al suo linguaggio, per calarci così del contesto delle sue opere e muoverci meglio all’interno di esse, rilanciando tale linguaggio e adattandolo alle intenzioni specifiche del nostro lavoro.



Zhao Yang, "Fire thiefs"

Heidegger e Essere e tempo


La trattazione del con-essere dell’Esserci trova spazio nel quarto capitolo della prima sezione di Essere e tempo, dedicato al Chi quotidiano di questo ente. L’indicazione non è casuale, poiché dice del livello in cui Heidegger colloca, almeno in prima battuta, la questione dello stare assieme: quello della quotidianità media e degli strumenti che in essa si incontrano. Lo studio dell’essere-nel-mondo dell’Esserci porta necessariamente l’attenzione su strutture «che sono cooriginarie all’essere-nel-mondo: il con-essere e il con-Esserci».[1] La presa in considerazione della collocazione del tema nel contesto dell’opera e di questa prima citazione fornisce già un’idea di come Heidegger concepisca la questione: lo stare assieme dell’Esserci è un fenomeno costitutivo del suo abitare il mondo, che così è con-mondo, e tale fenomeno lo coinvolge prima di tutto nel suo familiarizzare medio con questo mondo. Un’ulteriore precisazione, quella del carattere di esistenziale del con (e cioè di struttura a priori dell’esistenza dell’ente che ha il modo di essere del poter-essere e non della semplice presenza), chiude il quadro preliminare: l’Esserci abita il mondo in virtù della sua costituzione d’essere, e questa stessa costituzione d’essere, determinando il suo essere-nel-mondo, determina anche l’essenziale convivenza con altri Esserci, che gli deriva così dal fondo stesso del suo essere. Il con dell’Esserci non riguarda la situazione contingente del trovarsi insieme ad altri, né la semplice presenza di più uomini negli stessi luoghi («Il con-essere e l’effettività dell’essere-assieme non si fondano quindi nella compresenza di molti “soggetti”»[2]), ma l’a priori della sua esistenza. Ciò significa almeno due cose: in primo luogo che l’Esserci non è nel modo del con-essere perché è insieme agli altri, ma al contrario che può incontrare gli altri perché è essenzialmente con-Esserci; in secondo luogo ci dice che il fatto contingente della solitudine non comporta una confutazione di quanto detto, ma significa anzi che la solitudine stessa è «un modo difettivo del con-essere».[3] Il fatto che l’Esserci sia-con è da attribuire al suo particolare essere, e questo essere con gli altri è per esso tanto originario ed essenziale quanto lo è il suo essere con se stesso. Non solo, inoltre, l’Esserci è con-altri, ma è anche per-altri: ciò vuol dire che – essendo il suo essere, alla base, Cura – degli altri esso può aver cura (Fürsorge): può agire sull’esistenza d’altri, specialmente nella misura in cui promuove l’esistenza dell’altro (senza sostituirsi a esso) indirizzandola verso la sua migliore riuscita.

Abbiamo visto in sintesi quale importanza Heidegger dia alla questione dell’alterità. Abbiamo rilevato anche come tale questione attenga principalmente alla quotidianità del Dasein, cioè alla sua esistenza impropria, anonima e non personalmente guadagnata. Come è noto, in Essere e tempo l’uscita da questa situazione deve passare attraverso una ripresa di se stesso da parte dell’Esserci. Quest’ultimo, nell’ascolto della voce della coscienza propiziato dalla Grundstimmung dell’angoscia e nell’anticipazione della propria morte, esce dalla dispersione dell’esistenza deietta e si incammina verso l’autenticità. Nell’angoscia della decisione anticipatrice l’Esserci è edotto dall’inautenticità. Ora, il punto debole dell’impostazione heideggeriana del problema del con sembra stare proprio qui: non è con gli altri e per mezzo degli altri che l’Esserci si libera, ma ritirandosi nel silenzio della sua solitudine e predisponendosi all’ascolto e alla messa in opera di quelle strutture che lo toccano non nel con, ma nel suo Ci individuale. Nell’anticipazione della morte «dileguano tutti i rapporti con gli altri Esserci»[4]; la voce della coscienza che risveglia l’Esserci al suo poter-essere autentico «dovrà farsi sentire silenziosamente»[5]: l’uomo che prende in mano la sua esistenza e ne fa qualcosa di proprio (nel duplice senso di “appropriato” e di “proprio suo”, nel segno della Eigentlichkeit) è sostanzialmente solo. L’esistenziale con-essere, allorché l’Esserci si orienta verso l’esistenza propria, non solo passa in secondo piano, ma deve dileguare.

Questo ci dice forse che il con riguarda solo la quotidianità dell’Esserci e che sparisce quando esso si decide per l’esistenza autentica? Vista l’importanza che Heidegger conferisce al problema, le cose non possono stare così. La questione sembra trovare uno sbocco risolutivo verso la fine di Essere e tempo, nel capitolo dedicato alla storicità. L’Esserci, che nel frattempo è stato caratterizzato come ente temporale e temporalizzante, ha il suo accadere autentico nel destino. Decidersi anticipatamente per la propria morte significa anche progettarsi nelle autentiche possibilità che, pur attingendo al fondo di una tradizione, sono personalmente scelte. «L’Esserci, libero per la sua morte, si tramanda in una possibilità ereditata e tuttavia scelta»: è questo il suo destino esistenziale. Ma questo destino tramandato e scelto, oltre che individuale (Schicksal), è comune (Geschick). Continuiamo a citare lo stesso Heidegger: «Ma se l’Esserci, carico di destino, in quanto essere-nel-mondo, esiste sempre e per essenza come con-essere con gli altri, il suo accadere è un con-accadere che si costituisce come destino-comune»[6]. Il con-essere, che avevamo perso all’altezza della conversione dell’Esserci verso l’esistenza autentica, ritorna nella storicità del suo accadere, che è con-accadere. Come si spiega questa dinamica di andata e ritorno del con? È verosimile che il con-essere non vada perso nell’isolamento della decisione anticipatrice. Solo, per appropriarsi della propria esistenza, l’Esserci ha bisogno del silenzio, dello spazio per una riflessione sua propria e di nessun altro, e per fare ciò la solitudine è condizione indispensabile. È proprio la decisione solitaria a costituire la premessa decisiva per un con-essere autentico: il con-accadere degli Esserci, «l’accadere della comunità»[7], avviene come riunione spontanea di Esserci che, ben lungi dall’aggregarsi inconsapevolmente come masse informi, si sono prima di tutto progettati in autonomia, ognuno per sé, e poi, avendo scelto tutti la stessa scelta, hanno deciso unirsi per progettare insieme il proprio avvenire come comunità. Solo la premessa costituita dall’autonomia del progetto di ciascuno garantisce l’autenticità, l’esser proprio a ognuno, del progetto comune. Il con dell’Esserci è vissuto autenticamente quando è condotto fuori dalla quotidianità deietta, dall’Uneigentlichkeit, e tale uscita è possibile solo se ogni Esserci è eigentlich, cioè è proprio se stesso, e sceglie consapevolmente di con-accadere. Il con non sparisce, ma è sempre quantomeno all’orizzonte, e se per alcuni tratti si mantiene implicito è soltanto per poter essere affermato esplicitamente e con più forza in un secondo momento.

Vale la pena di menzionare, sul tema, la posizione di Nancy[8] (su cui torneremo più avanti), secondo il quale il con costituisce, tra l’individuo e la comunità, una sorta di termine medio, né interiore né esteriore, né soggettivo né oggettivo. Spazio vuoto tra indecidibili à la Derrida, il con, nella lettura del pensatore francese, sembra una sorta di atmosfera in cui l’uomo è immerso e a cui costantemente deve attingere. È un passo oltre la consueta considerazione del Mit-sein heideggeriano come semplice intersoggettività; Nancy complessifica la natura del con, mostrandocelo come una tangenza fondamentale di ogni Ci individuale con il Ci degli altri.



Zhao Yang, "The obiquitous"


Dialettica tra soggetti e questione della letteratura. La posizione di Sartre


Dei problemi affrontati finora si occupa anche Sartre, che alla questione dell’alterità dedica l’intera terza parte de L’Essere e il nulla, cercando di fare un passo oltre Heidegger. In Sartre la questione subisce uno slittamento: non più il noi, ma il me-altri costituisce il nucleo dell’indagine. Il noi è un elemento derivato e composto, che può essere fondato solo a partire dall’elemento semplice costituito dal rapporto diretto fra due soggetti. È proprio da questo elemento semplice che costituisce la base del problema dell’Altro che cominceremo a guardare da presso la posizione sartriana. L’Altro che, nella visione di Sartre, ha rilevanza dal punto di vista ontologico, è l’Altro concreto, e non un soggetto essenzializzato e indifferenziato. L’Altro che agisce effettualmente sul Sé e fa da fondamento all’intera impostazione sartriana del problema, è prima di tutto l’Altro che ruba lo spazio al Sé per mezzo del suo sguardo. Lo sguardo dell’altro è «pura disintegrazione delle relazioni che io percepisco tra gli oggetti del mio universo».[9] Si intuisce con facilità la natura destabilizzante dell’ingresso dell’Altro nella vita del Sé. Ma il culmine dell’ingerenza dell’altro avviene quando l’altrui sguardo, mezzo attraverso il quale l’Altro mi ruba lo spazio, rivolgendosi direttamente a me, diventa anche mezzo di oggettivazione della mia soggettività. L’altro che mi guarda non mi sa come mi so io, mi sa come un soggetto che non sono, un soggetto che, uscito da sé perché guardato da altri, è diventato soggetto-oggetto (l’io, il soggetto, è diventato me, l’oggetto). Non è tutto: l’oggettivazione compiuta dallo sguardo d’altri è ciò che, facendo sì che io mi sappia guardato, mi restituisce a me stesso e definisce il quadro delle mie possibilità esistenziali. Vediamo direttamente il testo: «Cogliere uno sguardo [...] è accorgersi di essere guardati», «Lo sguardo è prima di tutto un intermediario che mi rimanda da me a me stesso».[10] Ancora più in profondità: «Se c’è un Altro in generale, bisogna prima di tutto che io sia colui che non è l’Altro, ed è proprio in questa negazione compiuta da me su di me, che io mi faccio essere e che l’Altro sorge come Altro».[11] Non solo quindi ci sono strutture del proprio essere che possono essere esperite soltanto mercé l’intervento degli altri (la vergogna è un esempio eminente), ma questi altri hanno una funzione costitutiva indispensabile nei confronti della mia coscienza, perché è negando di essere l’Altro che affermo di essere ciò che sono, ed è mediante lo sguardo d’altri che ritorno su me stesso. C’è coscienza perché c’è altri che guarda e fonda nell’atto stesso di guardare: «Io sono, al di là di qualsiasi conoscenza, quel me che un altro conosce»[12] (e ciò vale naturalmente anche all’inverso, allorché mi risolvo a guardare a mia volta l’Altro). È una dialettica, quello dello sguardo-guardato, che, affondando nella materialità dei rapporti tra coscienze, riesce forse a rendere maggiormente conto di questi stessi rapporti rispetto al Mit-sein heideggeriano, tutto orientato verso il problema dell’essere. La prospettiva da cui Heidegger guarda al tema, pur passando attraverso la via dell’analitica esistenziale, non perde mai di vista la Seinsfrage, punto di partenza e di arrivo di Essere e tempo. Tenendo fermo ciò, la minor attenzione rivolta da Heidegger alle dinamiche concrete dell’incontro fra uomini risulta comprensibile. Certo è vero che, anche al netto di questo, Sartre riesce per certi versi ad andare oltre Heidegger: non è nella «solitudine in comune» della decisione anticipatrice che ci si afferma come soggetti liberi, ma nella dialettica fra coscienze in cui ogni soggetto, guardando l’altro, lo rimette a se stesso e alle sue possibilità. Ci sembra però anche che la stessa impostazione sartriana nasconda difetti strutturali impliciti. Una libertà raggiunta per mezzo dell’Altro non riduce l’Altro a mezzo? Non è forse più compiutamente libero chi, già liberatosi in autonomia, sceglie di accadere-con l’Altro in virtù di un progetto esistenziale che lo accomuna a esso? In Heidegger, l’Esserci decisosi anticipatamente non ha alcuna necessità di istituire un rapporto concreto con l’altro, e tuttavia lo sceglie, in piena libertà, fondando una forma sublimata di questa libertà. Oltre a ciò, in merito al con-essere heideggeriano, rammentiamo nuovamente la versione di Nancy. Se quest’ultima è fondata, allora di solitudine in comune non è lecito parlare, poiché quella solitudine presunta non è altro che una condivisione silenziosa, una tangenza atmosferica.

Al di là degli impliciti che abbiamo provato a rintracciare, in Sartre troviamo l’esplicito problema (ammesso dallo stesso Sartre, anche se non come problema, ma come normale stato di cose) di una dialettica fra soggetti conflittuale e disturbante, che dice non di una conciliazione possibile, ma di una contesa perenne, di un pericolo continuo: il pericolo è infatti «la struttura permanente del mio essere-per-altri»[13]; il mio me-oggetto è «disagio, sdoppiamento»[14]; «siamo rimandati indefinitamente dall’altro-oggetto all’altro-soggetto [...] la corsa non si arresta mai»[15]; «Il conflitto è il senso originario dell’essere-per-altri».[16]

Il passaggio dalla dialettica me-altro al noi, tenendo conto della natura derivata di quest’ultimo, finisce col ripresentare i problemi già visti, solo su un livello diverso. L’esperienza del noi risulta da una aggregazione di coscienze individuali, che rimangono tali pur sentendosi noi, e pertanto «il noi non è una coscienza intersoggettiva, né un essere nuovo che supera e assorbe le sue parti come un tutto sintetico»: il noi, quindi, «non può costituire una struttura ontologica della realtà umana».[17] È pertanto inevitabile che la scissione soggetto-oggetto, evidenziata nella dialettica fra soggetti individuali, si riproponga anche all’altezza del noi, soggetto già di per sé problematico.



Zhao Yang, "Public Security"


L’Essere e il nulla non profila sbocchi possibili a questa situazione; qui è anzi proprio il conflitto il requisito per l’acquisizione della libertà. Per trovare spunti in altro senso è necessario uscire dalla grande opera del ’43 e guardare altrove, in particolare al saggio sartriano sulla letteratura.[18] Qui, parlandoci di un appello che romanziere e lettore compiono l’uno nei confronti dell’altro – il primo chiede al secondo di far vivere la sua opera nell’atto della lettura, il secondo chiede al primo una storia da poter vivificare leggendo –, Sartre apre a un rapporto nuovo, conciliato e non disintegrante, fra soggetti. «Lo scrittore sceglie di appellarsi alla libertà degli altri uomini affinché questi, mediante le implicazioni reciproche delle loro esigenze, restituiscano la totalità dell’essere all’uomo e richiudano l’umanità sull’universo»[19]: in questo libero «patto tra le libertà umane» il conflitto e il pericolo non trovano spazio. Alla luce di ciò, la letteratura sembra effettivamente l’unico modo per uscire dal rapporto conflittuale con l’alterità. Malgrado questo, per quanto la proposta sia suggestiva, essa rimane, appunto, allo stato di suggestione: è Sartre medesimo a definirla utopica, in quanto necessiterebbe, per essere accolta, di una società di uomini uguali, perfettamente equa e priva di fenditure (richiederebbe come condizione di base, quindi, ciò che invece dovrebbe contribuire a creare). Ci pare pertanto che essa finisca col perdersi in quella mancanza di concretezza che Sartre stesso imputava al con-essere heideggeriano. Impostando alla maniera di Sartre l’elemento semplice della catena, al problema della conflittualità non sembra si possa trovare vera soluzione, e il vaglio delle opere di Dostoevskij confermerà questa impressione.



Dal sosia all’uomo del sottosuolo: identità e alterità in Dostoevskij


L’inserimento di Dostoevskij nella trattazione è vòlto al ritrovamento, in un terreno diverso da quello strettamente filosofico, delle strutture analizzate fin qui. A questo proposito, nell’opera del romanziere russo, esse sono rintracciabili sull’asse che parte da Il sosia e arriva alle Memorie del sottosuolo. Se è vero che a separare le due opere sono vent’anni di intensa attività letteraria, è altrettanto vero che tra esse è riscontrabile una certa continuità. Ci sembra che quest’ultima sia individuata e ben sintetizzata da Carlo Scilironi, quando scrive che «ciò che nel Sosia è patologia, nelle Memorie del sottosuolo [...] si traduce nell’essenza stessa del soggetto».[20] Opportuna è anche l’osservazione di Fausto Malcovati, che fa notare che quella dell’uomo del sottosuolo è «un’invenzione non legata a un singolo personaggio, bensì presente [...] proprio a partire da Il Sosia».[21]

Goljádkin, il protagonista de Il sosia, nell’indispensabile necessità del riconoscimento da parte degli altri al fine dell’affermazione del proprio sé – e nell’incapacità di ottenere tale riconoscimento – finisce col produrre una copia di sé, un sosia, che, almeno nelle intenzioni dello stesso Goljádkin, dovrebbe sostituirsi agli altri nel processo di riconoscimento. «La necessità che ha degli altri per prender coscienza di sé [...] determina come necessaria l’apparizione del sosia», «egli ha bisogno degli altri e vive soltanto riflettendosi nell’altrui percezione», gli altri lo hanno «privato del fondamento della sua stessa esistenza; infatti un personaggio come Goljádkin non può esistere da solo»[22]: Olga Belkina fotografa bene la situazione del protagonista del racconto, pur mettendo a nostro avviso fin troppo l’accento sull’eccezionalità patologica dei percorsi della mente di Goljádkin (e noi abbiamo già accennato al fatto che Dostoevskij finirà col far diventare tutti gli uomini delle versioni perfettamente sane dello stesso Goljádkin).

Ma è un’operazione, quella del protagonista del racconto, destinata al fallimento, poiché la proiezione all’esterno di un alter-ego produce le medesime contraddizioni della normale dialettica fra soggetti: l’alter-ego è infatti pur sempre un alter, ed è perciò caratterizzato dalla stessa indifferenza e dallo stesso desiderio di sopraffazione di ogni altro soggetto. Lo sguardo d’altri non può agire senza alienare, disgregare, mettere in pericolo la vita di chi da questi altri ha necessità di farsi riconoscere come libera soggettività: le pagine de L’Essere e il nulla risuonano nella lettura del testo dostoevskiano.

L’invenzione di Goljádkin non può funzionare, è il frutto della disperazione di un uomo che si gioca l’ultima carta per tentare di sentirsi in unità con sé, di sentirsi soggetto senza essere oggetto, e che finisce invece col consegnarsi alla follia. Una delle ultime scene de Il Sosia, in cui l’ormai sconfitto protagonista si sente annichilito, oggettivato ed espropriato dallo sguardo di un noi-soggetto, riassume brillantemente le pagine sartriane trattate nel precedente paragrafo:


Ma a un tratto sbigottì, rabbrividì tutto e per poco non cadde a sedere, in preda a vero terrore, al suo posto di prima. Gli sembrò infatti, anzi ne fu totalmente sicuro, che tutti stessero cercando non qualcosa o qualcuno, ma precisamente proprio lui, il signor Goljádkin in persona. [...] In quel momento il nostro eroe sarebbe stato ben felice di potersi ficcare in qualsiasi pertugio, magari piccolo come una tana per topi, tra la legna, e restarsene lì al sicuro, se solo fosse stato possibile.[23]


Ci sembrano rimarchevoli le affinità tra lo sbigottimento e il terrore descritti nel passo appena riportato e il disagio derivante dall’altrui sguardo di cui ci parla Sartre; tra il pertugio piccolo come una tana per topi di cui si accontenterebbe Goljádkin pur di non esser guardato e «l’angolo buio»[24] in cui rifugiarsi per evitare lo sguardo oggettivante d’altri de L’Essere e il nulla. E in entrambi i casi il rifugio serve a poco: la sorte di Goljádkin è già segnata, la possibilità dell’angolo buio, del pertugio, può essere facilmente superata dall’altro verso la possibilità di «rischiarare l’angolo con la sua lampadina tascabile»[25], verso la possibilità di aprirsi lo spazio per continuare a guardare, a espropriare, a oggettivare.

Seguendo le indicazioni di Scilironi e Malcovati, troviamo effettivamente nelle Memorie l’universalizzazione di ciò che ne Il sosia era il sintomo della follia di un solo uomo. L’uomo del sottosuolo, riflessivo e disincantato, pur in qualche modo conscio della sua superiorità spirituale rispetto all’uomo d’azione, cerca comunque, ossessivamente, di farsi riconoscere e accettare dagli altri, incapaci però di accoglierlo e comprenderlo proprio a causa del suo spessore spirituale. Il disperato tentativo di una dialettica armoniosa con l’altro diventa il tratto dell’uomo del sottosuolo, che, nell’inevitabile disfatta finale, è costretto alla resa: «S’intende che non gli rimane altro che fare con la sua zampetta un gesto di rinuncia a tutto e, con un gesto di ostentato disprezzo [...] infilarsi ignominiosamente nella sua fessura. Là, nel suo lurido, puzzolente sottosuolo, il nostro topo offeso, maltrattato e deriso si sprofonda immediatamente in una fredda, velenosa e, soprattutto, eterna malignità».[26] È l’epilogo di ogni diretto rapporto con gli altri che si aspetti da questi un riconoscimento pacifico ed edificante. A chi sospetta che la sua sia una condizione anormale, minoritaria, l’uomo del sottosuolo risponde lapidariamente: «Per quanto poi riguarda propriamente me, non ho che portato alle estreme conseguenze, nella mia vita, quello che voi non osavate portare nemmeno fino a mezza via».[27] Le affinità tra il testo sartriano e quello dostoevskiano, anche solo nei rapidi cenni qui forniti, ci paiono evidenti, e un’analisi testuale più ampia e rigorosa potrebbe portarle più compiutamente alla luce.

Cercando, nell’imminenza della conclusione, di tirare le fila del discorso, ci sembra di poter dire che, seguendo la linea Sartre-Dostoevskij, siamo inevitabilmente condotti a considerare ogni rapporto con l’altro come una lotta. Col cercare di uscire dallo schema del rapporto me-altro come perenne contesa, finiremmo anche col rompere l’intero paradigma sartriano-dostoevskiano, che su tale contesa si regge. Può l’impostazione heideggeriana passata per la lettura di Nancy costituire una base per una differente concezione del con? Pur nella sua sostanziale e innegabile vaghezza, l’interpretazione del Mit-sein come uno spazio di natura del tutto particolare, come un «regime di non esteriorità tra gli esistenti»[28] che ne conserva la specifica interiorità, può in effetti rappresentare una via, un’indicazione positiva su come intendere lo stare-insieme.

Mattia Zancanaro



______________________________________ [1] Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2018, p. 144. [2] SuZ, p. 152. [3] Ibid. [4] Ivi, p. 301. [5] p. 324. [6] p. 453. [7] Ibid. [8] Jean-Luc Nancy, L’être-avec de l’être-là, «Cahiers Philosophiques», 2007/3 (N° 111). [9] Jean-Paul Sartre, L’Essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 2014, p. 307. [10] ÊN, pp. 311-312. [11] Ivi, p. 338. [12] p. 314. [13] p. 321. [14] p. 329. [15] p. 471. [16] p. 424. [17] p. 477 [18] Jean-Paul Sartre, «Che cos’è la letteratura?», Che cos’è la letteratura?, Il Saggiatore, Milano 2009. [19] ...letteratura?, p. 45. [20] Carlo Scilironi, Leggere “Essere e tempo” di Heidegger, Cleup, Padova 2020, p. 37. [21] Fausto Malcovati, Introduzione del volume Fëdor Dostoevskij, Il Sosia, Garzanti, Milano 1999, p. XXIV. [22] Olga Belkina, Prefazione del volume Fëdor Dostoevskij, Il sosia, Feltrinelli, Milano 2019, p. 19. [23] Fëdor Dostoevskij, Il sosia, Feltrinelli, Milano 2019, pp. 219-220. [24] ÊN, p. 317. [25] Ibid. [26] Fëdor Dostoevskij, Memorie del sottosuolo, Einaudi, Torino 2014, p. 13. [27] Memorie, p. 132. [28] Nancy, op. cit., p. 71 (trad. nostra).

125 visualizzazioni0 commenti
Home: Subscribe

CONTATTACI

Il tuo modulo è stato inviato!

Home: Contatti
bottom of page