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QUARTA IPOSTASI

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Qualche osservazione a partire dal termine “Idea” in Giorgio Gaber (con l’aiuto di Hegel)



Un’idea, un concetto, un’idea

Finché resta un’idea è soltanto un’astrazione

Se potessi mangiare un’idea

Avrei fatto la mia rivoluzione


Così comincia un famoso brano di Giorgio Gaber, che provo a usare qui come punto di partenza per una serie di osservazioni – del tutto informali – sul termine “idea” e su alcune sue possibili applicazioni. Il messaggio che Gaber vuol far passare è, anche solo leggendo i quattro versi qui sopra, immediatamente comprensibile: le idee di per sé sono un prodotto dei nostri pensieri, e se non escono dal ristretto àmbito del mentale non hanno alcun effetto concreto sulla nostra prassi esistenziale. Difatti Gaber fa notare subito dopo che


In Virginia il Signor Brown

Era l’uomo più antirazzista

Un giorno sua figlia sposò

Un uomo di colore

Lui disse “bene”

Ma non era di buonumore


L’idea, che in Gaber, oltre che di “concetto” (come lui stesso scrive nel primo verso), è senz’altro sinonimo anche di “principio”, se non si converte in altro da sé, in pratica, rischia di essere non soltanto pura astrazione, ma anche causa di discrasia e incoerenza fra quanto si è disposti a dichiarare e quanto si è poi disposti a fare. Ne risulta che estremamente facile è avere idee, ma che il lato pratico della questione, la realizzazione e la perpetuazione dell’idea nella realtà esteriore, se manca, rende l’idea controproducente: ci si accomoda sull’idea, si ritiene che sia sufficiente quella, e non si è quindi disposti a fare nulla (o nulla di significativo) per farla diventare qualcosa di materialmente tangibile. Quella di Gaber è una concezione direi quasi ‘volgare’, cioè vicina a quella del linguaggio corrente, dell’idea (ma non è detto che perciò sia sbagliata).

I principali autori della storia del pensiero occidentale hanno generalmente tenuto separati “concetto” e “idea”. In Hegel il lato dell’astrazione, quello dell’unilateralità che non si è ancora realizzata concretamente, è costituito dal concetto. Quando il concetto esce dalla sfera dell’intangibile per darsi esistenza concreta, si trasforma in idea: l’idea non è già più astrazione, ma è concetto che, manifestandosi storicamente come un che di esistente, diventa ciò che c’è di massimamente concreto. Non è soltanto una distinzione terminologica: in Hegel esiste senz’altro il lato della mera astrazione (l’idea in Gaber), ma l’umanità, in certi stadi del suo sviluppo, è consapevole di dover agire nella realtà per far sì che l’astrazione diventi, pur rimanendo un prodotto del pensiero, qualcosa di anche concreto, e questo pensiero concreto e concretamente realizzato è idea. L’idea hegeliana tiene insieme i due lati (astrattezza del concetto e concretezza dell’esistenza) e diventa la perfetta unione dei due: pensiero, sì, ma concretamente effettuale. Se il signor Brown e gli abitanti della Virginia (Hegel avrebbe certamente più volentieri parlato in termini di comunità e non di comportamenti individuali, ma manteniamoci flessibili) avessero realmente concepito l’idea di “uguaglianza di tutti gli uomini indipendentemente dall’etnia di afferenza”, allora sarebbero stati già automaticamente disposti a darle realtà concreta, senza relegarla al contesto dei princìpi etici astratti.



Ad una conferenza

Di donne femministe

Si parlava di prender coscienza

E di liberazione

Tutte cose giuste

Per un’altra generazione


Le donne femministe che parlano di emancipazione alla conferenza conoscono l’idea di emancipazione della donna, ne hanno ben presenti gli eventuali effetti positivi per la società, ma non capiscono che le condizioni culturali (Hegel direbbe “spirituali”) della realtà del presente non sono ancora adeguate, non rendono possibile la concretizzazione del concetto e la sua conversione in idea. Le discussioni sull’emancipazione femminile portate avanti alla conferenza rimangono astratte perché incapaci di uscire dall’aula in cui avvengono e di informare di sé il mondo reale.

Mi sembra che, nel caso dell’ultima strofa citata, l’interazione Gaber-Hegel possa diventare particolarmente fertile. Quello che molto spesso traspare dalle pubblicazioni e dalle discussioni di alcuni movimenti femministi (ma direi più in generale da molte istanze portate avanti dalle sinistre progressiste) è una lunga lista di ottimi propositi per la cui realizzazione mancano però gli strumenti concreti. Nessuno di noi – o quasi nessuno – fa fatica ad ammettere che le condizioni delle donne in Italia (e non solo) siano socialmente, politicamente, culturalmente allarmanti (e questo fuor di retorica, perché a parlare sono i dati). Quello che invece spesso – e direi anche legittimamente – si fatica ad accettare è che le soluzioni indicate da quei gruppi che più hanno a cuore la questione (l’azione di polizia linguistica su tutte) abbiano una qualche capacità di mutare l’esistente e di migliorare la situazione.

Mi viene da pensare che “emancipazione femminile” sia, presso questi ambienti, ancora allo stato di vuoto concetto, di puro bene astratto che ancora manca di una concreta esistenza nelle società. L’emancipazione della donna è per molti esponenti del femminismo di oggi un concetto astratto di Hegel o, se si preferisce, un’idea alla Gaber. Solo en passant, è particolarmente interessante far notare che, secondo Hegel, quando il concetto rimane allo stadio della moralità, cioè di un bene astratto che viene inseguito senza la possibilità e le capacità di realizzarlo, questo finisce spesso per trasformare quelli che lo perseguono in fanatici. Non è forse abbastanza vicino a ciò che accade oggi in molti contesti?

Io ritengo che tutte le cose giuste di cui si parla alla conferenza di donne femministe siano buone già per questa generazione, che cioè le condizioni culturali per modificare effettualmente l’esistente si diano già oggi; purché però si prenda coscienza del fatto che gli strumenti per la loro realizzazione non sono linguistici e nemmeno ideologici, ma politici ed economici. Non vorrei dilungarmi troppo, ma mi pare che un esempio, pur banale, possa esser d’aiuto: l’inclusività passa, tra le altre cose, attraverso politiche che rendano la vita della donna con figli a carico più sostenibile; il fatto che la casa editrice indipendente faccia sapere, attraverso le sue frivole pubblicazioni, senza mai fare dell’analisi dei dati sulla condizione femminile in Italia e nel mondo uno strumento per le proprie disamine, che le donne devono alzare la voce e distruggere il patriarcato, è niente più che idea astratta (o un concetto, se preferite).

Se potessimo mangiare un’idea, avremmo fatto la nostra rivoluzione. Una volta data realtà effettiva a questa idea, una volta cioè utilizzati gli strumenti politici ed economici che servono per la sua realizzazione, probabilmente ce ne potremo finalmente anche sfamare.


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