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La fine dell'arte: linee di sviluppo storiche e concettuali di una teoria

Aggiornamento: 25 mar 2021



Georg Wilhelm Friedrich Hegel


Quello della fine dell’arte costituisce uno dei luoghi chiave del pensiero di Hegel, oltre che del dibattito sull’autore successivo alla sua morte. Nel corso di questo scritto cercheremo di ricostruire i momenti fondamentali di questa tesi, mettendone in luce sia gli aspetti legati al processo storico sia quelli più strettamente connessi al concetto di arte – tenendo sempre fermo che in Hegel storia e concetto, accompagnandosi e intersecandosi continuamente, costituiscono un binomio di fatto inscindibile. A fare da base allo scritto è la Nachschrift del corso berlinese di estetica del '23, di cui verranno analizzate e riassunte, in specie, la sezione sulle forme universali e la parte speciale, dedicata al sistema delle singole arti. Si cercherà, una volta discussa e argomentata tale tesi, di vedere in che modo essa interagisca con alcuni luoghi del pensiero di Danto e Sartre, autori che nel secolo scorso hanno affrontato, pur da prospettive diverse, le contraddizioni che hanno attraversato l’arte contemporanea e la riflessione su di essa.



1. La fine dell’arte in Hegel


Prima di procedere all’esposizione della teoria sulla sua fine, sarà bene spiegare brevemente che cosa per Hegel sia l’arte e quali funzioni egli le attribuisca. Lo leggiamo già nelle prime pagine del corso berlinese del 1823:[1] l’arte «si determina come il regno del bello», un bello che, nel suo apparire, a differenza di ciò che appare immediatamente in natura, «rinvia a qualcosa di più elevato», e il cui interesse è portare a coscienza «le più alte richieste dello spirito».[2] L’arte è la manifestazione dello spirito che mostra questo spirito sensibilmente («Il contenuto è il pensiero, la forma il sensibile»).[3] È la sensibilità il proprium dell’arte, ciò che la differenzia dalle altre forme entro cui lo spirito assoluto si dà. Quello dell’arte è «un sensibile spiritualizzato ovvero uno spirituale sensibilizzato»,[4] e proprio il lato sensibile, oltre che la più intima caratteristica, costituisce il limite insuperabile del modo artistico di darsi dello spirito: il prodotto artistico «ha un materiale sensibile, e perciò solo un certo grado della verità è suscettibile di essere contenuto»[5] di esso. Le forme che mostrano lo spirito senza servirsi del sensibile (religione e pensiero) gli permettono di manifestarsi in modo più interiore, meno dispersivo e perciò più compiuto. Se lo spirito vuole giungere alle sue più alte vette, deve procedere oltre l’arte, oltre le limitazioni del sensibile; ed è proprio grazie all’arte che ciò può avvenire, poiché è essa, nel suo sviluppo storico e concettuale, ad andare oltre sé per mezzo di sé.



1.1 La fine storica dell’arte


La storia dell’arte come storia della manifestazione dello spirito assoluto in veste sensibile conosce tre grandi momenti (le forme universali dell’arte), che corrispondono a tre diverse configurazioni del rapporto tra la forma e il contenuto delle opere in una data epoca: simbolico, classico e romantico. «Il bello è dapprima ricerca, poi è compiuto, indi procede oltre la compiutezza»:[6] è racchiuso qui, in estrema sintesi, il movimento che il bello compie nel passare da una forma universale all’altra. Il simbolico, punto di partenza dell’arte, che Hegel attribuisce alle culture orientali che precedono la Grecia classica, è segnato da uno spirito che, ancora incerto di sé, si concretizza in forme altrettanto incerte. A un pensiero ancora poco solido corrisponde inevitabilmente una forma vaga, priva di contorni, incapace di corrispondere adeguatamente allo spirito. Il simbolico è la forma dell’estrinsecità: il simbolo presenta qualche caratteristica di ciò che simboleggia, ma la relazione rimane imperfetta, non combaciante. Nondimeno, pur all’interno di questa imperfezione strutturale, il simbolico procede verso una sempre maggiore consapevolezza: se dapprima si è in presenza dell’assoluta indeterminatezza di un contenuto che è costretto a perdersi in una forma naturale priva di contorni, i momenti successivi dicono di un pensiero che è sufficientemente definito da predisporre una corrispondenza stabile tra sé e ciò che lo simboleggia.

La piena corrispondenza tra concetto e forma si realizza nell’arte della Grecia classica, in cui lo spirito, venendo letteralmente a esistere nella forma, «è l’essente presso di sé, [...] il concetto nella sua realtà, che ha il proprio significato in se stessa».[7] La statua del dio greco, che la comunità etica venera, non simboleggia il dio, ma è essa stessa il dio, il quale viene così concretamente a esistere nella sensibilità («Il dio, nell’arte greca, ha la sua esistenza solo nella figura sensibile»).[8] Il popolo, nel riconoscere nella forma sensibile il suo dio, nella statua riconosce anche se stesso. «I nuovi dei sono entità spirituali»,[9] sono uomini, da cui la comunità può dire di sentirsi completamente rappresentata. La figura umana messa in opera d’arte è la resa sensibile dello spirito; quello greco è un dio che, adeguato allo spirito, è in armonia con il popolo che lo venera e che in esso riconosce sé, la propria cultura, la propria comprensione della realtà. È in questo momento della storia del mondo che l’arte, nel perfetto bilanciamento tra forma e contenuto, rappresenta il modo più alto e adeguato di esprimere lo spirito del popolo che la produce.



Venere di Milo


Ma l’arte, per poter portare sempre più in alto lo spirito, deve procedere anche oltre la propria compiutezza. Quando il pensiero giunge a vedere nel culto di ciò che è esteriore una sopraffazione compiuta dal mero sensibile nei confronti del contenuto universale, tale spirito smette di prendere sul serio i propri dèi e si ritira nel suo interno. È «la scontentezza del pensiero dinanzi alla propria realtà»[10] (una realtà che si sta facendo troppo complessa per accontentarsi dell’arte), è lo spirito della soggettività ormai certa di sé, messa in opera dalla commedia aristofanea, che segna la fine della religione artistica e della stessa grecità classica. «Il principio è quello dell’assoluta interiorità»: da qui in poi si è in presenza di una soggettività che «fugge dall’arte ed è soltanto oggetto del pensiero»;[11] l’arte non è più la forma migliore di portare a manifestazione lo spirito, in quanto quest’ultimo, ritiratosi nell’intimità, si sente meglio rappresentato da forme che sanno fare a meno del sensibile. Il passaggio all’arte romantica, che caratterizza il mondo cristiano, si compie qui. Lo spirito cristiano ha nell’intimità, e non più nell’immagine sensibile, la più elevata espressione di sé, e pertanto l’arte prodotta da tale spirito torna a essere internamente segnata dallo squilibrio: nel romantico «la materia non è adeguata all’intimità dell’animo».[12] Una volta che la cristianità, divenuta la cifra del mondo moderno e lo spirito produttore dell’arte romantica, afferma non l’arte, ma l’interiorità soggettiva, come luogo eminente di manifestazione dello spirito, l’arte giunge progressivamente al proprio dissolvimento. «All’arte importa di presentare la guisa sostanziale della coscienza di un popolo»,[13] ma i popoli della cristianità hanno trovato in altro dall’arte ciò che porta a manifestazione la propria coscienza. La vita nella modernità è troppo complessa per poter essere compresa ed espressa mediante l’intuizione offerta dall’opera d’arte. Nel mondo moderno perciò l’arte si è svincolata dal compito di portare a espressione lo spirito del popolo che la produce, ha perduto la propria funzione, ed è in questo che senso che per Hegel la sua parabola è da considerarsi storicamente conclusa: «L’arte, nella sua serietà, è per noi qualcosa di passato. Per noi altre forme sono necessarie allo scopo di renderci oggetto il divino. Noi abbiamo bisogno del pensiero».[14]



Aelbert Cuyp, Paesaggio con fiume e cavalieri


1.2 La fine concettuale dell’arte


Il secondo modo in cui l’arte può finire è quello concettuale. Posto che «la manifestazione dell’arte è sensibile, non è l’elemento del pensiero come nella filosofia»,[15] un’arte che riuscisse a fare a meno dell’elemento sensibile e confluisse nella pura riflessione non sarebbe propriamente più arte. E ciò è proprio quanto secondo Hegel accade nel caso della poesia, la quale, abbassando la materialità sensibile della parola a mero segno per un’interiorità, procede oltre se stessa e oltre l’arte. Vediamo ora il sistema hegeliano delle singole arti, che, avendo in sé il principio del proprio dissolvimento, finirà col mostrarci tramite la sua semplice esibizione il modo in cui l’arte 'muore' concettualmente. Il sensibile dell’arte si dà in due modi: quello dell’intuizione sensibile («coscienza esteriore immediata») e quello della rappresentazione sensibile (che è un passo oltre, poiché «la rappresentazione oscilla già tra la sensibilità e il pensiero»).[16] Il secondo modo è tipico della sola poesia, e il fatto che questa sia arte della rappresentazione è rimarchevole, poiché dice di una vicinanza essenziale di essa alla religione (che proprio nella Vorstellung ha il suo modo di espressione) e al pensiero, oltre che del suo essere, al contempo, il punto culminante dell’arte e quello in cui l’arte sfocia in altro da sé. Ad apparecchiare le condizioni per il passaggio dell’arte al di là di se stessa per mano della poesia è il succedersi delle altre forme d’arte, quelle dell’intuizione sensibile: architettura, scultura, pittura e musica. L’ordine in cui le abbiamo citate – che è anche quello in cui sono collocate nella trattazione del corso – non è casuale: partendo dall’architettura, che costituisce, nella sua pesante materialità e nella sua estrinsecità, l’inizio dell’arte, si procede via via verso una sempre maggiore spiritualizzazione e soggettivizzazione delle manifestazioni artistiche. La scultura, rispetto all’architettura, che è solo involucro esteriore, consente la raffigurazione di una soggettività più definita; essa, mettendo in figura l’uomo, costituisce «la prima esistenza dello spirito».[17] Tuttavia, quella che essa mette in opera è una soggettività sostanziale, non particolare; dovrà quindi confluire nella pittura, che, mostrando la soggettività particolarizzata, emotivamente tonalizzata, riesce a esibire i sentimenti specifici tipicamente umani (superbia, amore...). A sua volta la pittura, nella sua fase ultima, si fonda su una intimità e una leggerezza estreme, indifferenti al contenuto; è così che questa intimità, inadatta alla materialità del pittorico, procede ancora oltre, verso la musica, che è l’arte che non ha contenuto di per sé, ma che trae tale contenuto dal sentimento, dall’intimità del soggetto che la interiorizza. Il contenuto che la musica veicola attraverso il suono è il discorso, che non è interno alla stessa musica, ma appartiene già alla forma d’arte in cui la musica si compie, la poesia. La parola poetica non ha valore di per sé, ma è mero segno che rimanda a un interno, che spinge lo spirito dentro la coscienza, nella rappresentazione. «La rappresentazione è di natura spirituale, e dunque le spetta già l’universalità che appartiene al pensiero»;[18] quella poetica è una rappresentazione particolare, giacché «segna il passaggio dal rappresentare come tale al pensiero».[19] Il succedersi delle specifiche arti tende verso la più compiuta forma d’arte, la poesia, la quale, portando l’arte a compimento, la conduce anche alla sua conclusione superando il sensibile in direzione del pensiero.



2. Spunti da Danto e Sartre


Vediamo come le posizioni hegeliane interagiscano con le prospettive di Danto e Sartre, che, oltre un secolo dopo Hegel, si sono cimentati in un corpo a corpo con l’arte del proprio tempo. Danto si confronta direttamente con Hegel, prendendo estremamente sul serio la tesi sulla fine dell’arte, tanto da arrivare a riproporla come risposta agli interrogativi posti dall’arte del ‘900. La soluzione di Danto è di estremo interesse, poiché fa coincidere la fine della storia dell’arte col confluire dell’arte stessa in una riflessione su di sé, in una filosofia dell’arte: la storia dell’arte finisce quando l’arte, divenendo sempre più concettuale, si trasforma in filosofia. L’arte culmina nella sua filosofia (nel suo chiedersi “che cos’è l’arte?”), e la produzione del secondo Novecento è lì a testimoniarlo. Un’arte che sfocia nella sua filosofia è sì un’arte giunta al vertice, ma è anche un’arte la cui storia si conclude nel momento stesso in cui tale vertice è raggiunto. «Le produzioni recenti [...] mettono in luce [...] che gli oggetti si avvicinano allo zero nella misura in cui la teoria si approssima all’infinito per cui, virtualmente, tutto ciò che rimane alla fine è la teoria, poiché l’arte alla fine è evaporata in un bagliore di pensiero puro su sé stessa»; «La fase storica dell’arte finisce quando si comprende ciò che l’arte è e ciò che essa significa. Gli artisti hanno aperto la strada alla filosofia ed è giunto il momento in cui il compito deve essere infine trasferito nelle mani dei filosofi».[20] La posizione di Danto, per quanto appaia estrema, sarebbe probabilmente stata accolta dallo stesso pensatore a cui si ispira, se è vero, come scrive Markus Ophälders, che Hegel sostiene che «i modi di rappresentazione dello spirito messi in atto dall’arte siano nella modernità più complessi e mediati, e che abbiano bisogno della riflessione filosofica per essere compresi».[21]



Andy Warhol, Brillo Box


Senza dubbio la linea Hegel-Danto, viste le pieghe prese da molta arte contemporanea, riesce a rendere conto e a rispondere delle dinamiche di buona parte della storia recente. Ci sembra tuttavia che questo paradigma funzioni principalmente con le arti visive, e che invece si blocchi proprio al cospetto di quella forma d’arte a cui Hegel aveva assegnato il compito di far diventare l’arte filosofia, cioè la poesia. «I poeti sono uomini che rifiutano di utilizzare il linguaggio», «il poeta si è ritratto di colpo dal linguaggio-strumento; ha scelto una volta per sempre l’atteggiamento poetico che considera le parole come cose e non come segni», «per il poeta il linguaggio è una struttura del mondo esterno»:[22] sono parole di Sartre, che in poche righe trasforma la concezione hegeliana della parola poetica come mero segno per la coscienza. In Hegel la parola poetica si distingue per l’immagine che riesce a porre dinanzi alla coscienza (fornendo quindi una particolare visione della realtà), non per una materialità e un risuonare suoi propri. Questi aspetti, pur da Hegel tenuti in una certa considerazione (lo testimoniano le lunghe pagine dei vari corsi dedicate agli aspetti tecnici e formali della poesia), hanno comunque un’importanza relativa, tanto che la poesia può essere tradotta e parafrasata senza che l’immagine che il poeta intendeva originariamente suscitare venga intaccata. Non è quindi tanto la parola in sé a suscitare l’immagine, quanto il significato che quella parola veicola.

Sartre percorre una via diversa: la parola poetica non è strumento, semplice segno, ma sostanza dotata di piena materialità che invita il lettore a un atteggiamento contemplativo nei confronti non tanto del concetto che la parola veicola, ma della parola medesima. Il poeta non si serve delle parole, ma le serve, le carica di un potere significativo che esse hanno in quanto sono le parole che sono e che fa sì che non le si possa oltrepassare in vista di altro.[23] Non dobbiamo certamente dimenticare che mentre in Hegel la Poesie è ciò che noi contemporanei chiameremmo più generalmente “letteratura”, Sartre, parlando di poesia, si riferisce al componimento in versi in senso stretto. Tenute presenti queste differenze non secondarie, ci sembra che la sostanza della nostra tesi rimanga: nel componimento poetico la Poesie trova un appiglio contro l’abbassamento della parola letteraria a mero segno per un interno. In Sartre la poesia, che nel sistema hegeliano consegna l’arte al concetto, riconduce l’arte stessa alla sua materialità, alla sua sensibilità costitutiva, alla sua indipendenza. Ecco che, seguendo Sartre, ritroviamo nell’ultimo momento del sistema delle arti, quello che in Hegel e Danto è il capitolo finale del Bildungsroman della vita dell’arte, una rinascita dell’arte stessa, che si riconsegna alla sensibilità quale suo elemento costitutivo insuperabile.



Mattia Zancanaro


_________________________________ [1] Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni di estetica, Laterza, Roma-Bari 2000. [2] Hegel, Estetica ’23, pp. 3-7. [3] Ivi, p. 33. [4] p. 23. [5] p. 8. [6] p. 114. [7] p. 152. [8] p. 172. [9] p. 161. [10] p. 170 [11] p. 175 [12] p. 192. [13] p. 196. [14] pp. 301-302. [15] p. 199. [16] Ibid. [17] p. 223. [18] p. 263. [19] p. 267. [20] Arthur C. Danto, «La fine dell’arte», in La destituzione filosofica dell’arte, Aesthetica, Milano 2020, pp. 132-133. [21] Markus Ophälders, «Poesia e morte dell’arte», in Mario Farina, Alberto L. Siani (a cura di), L’estetica di Hegel, Il Mulino, Bologna 2014, p. 223. [22] Jean-Paul Sartre, «Che cos’è la letteratura?», in Che cos’è la letteratura?, Il Saggiatore, Milano 2009, pp. 15-16.

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